Fu fondata, secondo ipotesi fantasiose di antichi scrittori, da Sabatio, pronipote di Noè, il quale dette il nome di Sabathia al primo insediamento umano che trovò vita lungo la vasta fascia di terra bagnata dal corso fluviale del Sabato, così denominato proprio in omaggio al discendente di Noè[7]. Ipotesi meno fantasiose vedono le origini di Atripalda affondare le radici anche nel sangue dei martiri cristiani: lo Specus Martyrum, conservato all'interno della chiesa madre dedicata a Sant'Ippolis leggi di più
Fu fondata, secondo ipotesi fantasiose di antichi scrittori, da Sabatio, pronipote di Noè, il quale dette il nome di Sabathia al primo insediamento umano che trovò vita lungo la vasta fascia di terra bagnata dal corso fluviale del Sabato, così denominato proprio in omaggio al discendente di Noè[7]. Ipotesi meno fantasiose vedono le origini di Atripalda affondare le radici anche nel sangue dei martiri cristiani: lo Specus Martyrum, conservato all'interno della chiesa madre dedicata a Sant'Ippolisto e San Sabino (patrono della città), è considerato uno dei maggiori monumenti dell'archeologia cristiana del Meridione. I luoghi dove intorno all'anno mille sarebbe nato il primo nucleo di Atripalda avevano ospitato — sul pianoro tufaceo che da nord-ovest domina il centro abitato — Abellinum, un insediamento sannita, poi colonia romana sorta per volontà di Silla nell'82 a.C., poco dopo le riforme agrarie promosse dai Gracchi. La comunità di Abellinum era prevalentemente formata da milites lassi — trapiantati da Silla tra le mura di Civita — i quali ripopolarono questo lembo di terra irpina dopo aver allontanato da essa i primi abitanti, cioè i "Sabatini" che vengono considerati i grandi antenati degli atripaldesi. Civita fu anche il rifugio di ex legionari dell'imperatore Augusto che, come racconta Plinio, sostenne l'annessione di Abellinum all'Apulia. In epoca successiva, tra il 220 ed il 230 d.C., giunsero nell'antica città di Silla i veterani dell'imperatore Alessandro Severo provenienti dall'Asia Minore. In questo vorticoso avvicendamento di popoli e di tradizioni, non tutta la primitiva gente sabatina abbandonò la terra di origine: molti indigeni, nel corso dei decenni, furono inesorabilmente assorbiti dagli Abellinati dai quali appresero la lingua latina e con i quali conobbero momenti di splendore e di grandezza.
Crisi economiche (III e IV secolo d.C), violenti terremoti (346 d.C.), disastrose eruzioni vulcaniche (476 d.C.), invasioni di territori nel corso della guerra tra Bizantini e Goti (535-555 d.C.) e la penetrazione sull'intero territorio della Penisola dei Longobardi a partire dalla Pasqua del 568 spinsero fuori dalla mura di Abellinum la colonia romana che si trasferì laddove sorge Avellino. Civita si spense dopo secoli di vita intensamente vissuti come testimoniano le scoperte archeologiche — resti di sepolcreto, di anfiteatro, di edifici termali, di strade — che si sono susseguite nel tempo nonostante che il cemento — croce e delizia dell'urbanistica moderna — abbia tentato di archiviare per sempre l'antichità nella lunga notte dell'oblio.
Nel corso dei secoli successivi, Atripalda ha comunque conosciuto il dominio di Longobardi, Svevi, Angioini, Aragonesi, Francesi, Spagnoli, Saraceni e Greci.
Dopo la morte di Civita, mentre sulla sponda sinistra del Sabato l'Abellinum sillana si era ormai fisicamente esaurita, sulla sponda opposta un re longobardo, Troppualdo, riusciva ad ottenere il riconoscimento di autonomia per la popolazione sparsa nella zona, distaccandola amministrativamente dalla vicina Avellino longobarda. Era l'atto di nascita di Atripalda. Troppualdo (da cui deriva anche il nome dell'odierna Atripalda), nel corso del secolo XI, edificò la sua fortezza in cima ad un'altura che sovrasta la cittadina irpina. Le rovine di questo castello rammentano il più antico atto di galanteria in Italia: è lo storico-statista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) che parla nel riferire dell'ospitalità accordata in una notte d'inverno del 1254 allo svevo re Manfredi dai signori del maniero Marino e Corrado Capece, fedeli agli Svevi. Il giovane re, braccato dalle truppe papaline, abbandonò Napoli diretto verso il principato di Taranto. I signori Capece, non temendo le rappresaglie del papato, aprirono i portoni del castello al re fuggiasco. "Il buon re Manfredi — rievoca il Mancini — educato alla gentilezza, all'amore ed alla poesia, volendo retribuire di qualche insolito onore l'ospitale accoglienza ricevuta dai fratelli Capece, fattesi venire avanti le due loro giovani spose che erano di rarissima bellezza, volle che ai suoi fianchi sedessero e seco lui familiarmente desinassero".
Dell'evento molto interessante è la testimonianza nella Historia di Nicolò Jamsilla: "Il costume e la superbia delle corti obbligava in quei tempi i sovrani a sedere soli a pranzo, escludendo rigorosamente le donne, ritenute esseri inferiori, ma il re Manfredi volle che fosse spezzata questa barbara usanza dicendo: spezzerò io questa barbarie cominciando dal dì di oggi e il castello di Tripaldo serberà memoria di me". Dello storico castello — che lo stesso re Manfredi, in virtù di quell'atto di galanteria, immaginava come "qualche cosa di sacro per le belle italiane" delle future generazioni — non restano che pietre.
Nell'epoca feudale (siamo qui nel 1502), la città della riva del Sabato divenne dominio della regina Giovanna, nipote del re spagnolo Ferdinando il Cattolico. A distanza di dieci anni, il 13 settembre 1512, l'antica terra dei Sabatini fu ceduta per 25.000 ducati a Alfonso Branai (o Granai) Castriota, primo marchese di Atripalda dal 1513[8], discendente di Vrana Konti, uno dei più stretti collaboratori, consulenti e uno dei migliori comandanti di Giorgio Castriota Scanderbeg[9], famoso eroe albanese nella guerra contro gli ottomani. Da Alfonso nacque Camilla, la quale, sposando nell'anno 1517 Ferrante Caracciolo, il Marchese di Castellaneta, cede a costui il diritto di ricomperare il feudo di Atripalda.[8]
Nel 1559, il "feudo Tripalda" passò nelle mani del nobile finanziere genovese Giacomo Pallavicini Basadonna che l'acquistò per 60 200 ducati. Il governo del finanziere genovese servì a rafforzare l'innata vocazione al commercio degli abitanti della zona, i quali, già prima della venuta del Basadonna in Irpinia, coltivavano con successo l'"arte del mercanteggiare" lungo le sponde del fiume Sabato. Un episodio verificatosi nel 1560 (quindi all'epoca del Basadonna) sarebbe la dimostrazione di quanto forte sia stato l'influsso esercitato sulla popolazione residente dal nobile genovese in tema di finanze e di reperimento di risorse necessarie per la gestione del feudo: gli Atripaldesi, in quell'anno, decisero di realizzare una strada "dentro la terra" per imporre il pagamento del pedaggio a quanti, per portarsi dai paesi limitrofi nel vicino capoluogo, cioè ad Avellino, dovevano attraversare il territorio di Atripalda. Nel 1564, con rogito del notaio Bernardino Brusatori di Fermo, il Basadonna permutò il "feudo di Tripalda" con i feudi posseduti dal nobile casato di Domizio Caracciolo nel ducato di Milano, a Gallarate.
Con i Caracciolo la cittadina visse un periodo di notevole splendore, dal 1564 fino al 1806, epoca in cui venne abolita la feudalità. Nel ducato di Atripalda dopo Domizio, I duca di Atripalda, della prestigiosa famiglia Caracciolo si susseguirono Marino I (1535-1591), cavaliere distintosi a Lepanto, Camillo (1563-1617), Marino II (1587-1630), Francesco Marino I (1631-1674), Marino III (1668-1720), Francesco Marino II (1688-1727), Marino Francesco I (1714-1781), Giovanni (1741-1800) e Marino Francesco II (1783-1844).
I Caracciolo, con una programmazione "rivoluzionaria", seppero incentivare le risorse dell'intera valle bagnata dal Sabato. Le filande, l'industria del ferro, la lavorazione del rame, della carta e della lana concorsero ad assicurare agli Atripaldesi un elevato tenore di vita - superiore a quello del vicino Capoluogo - tanto che in quel periodo non furono censiti "cittadini poveri" tra la popolazione. Notevole impulso venne assicurato al mondo della cultura che conobbe, grazie al mecenatismo dei Caracciolo, l'Accademia degli Incerti. leggi di meno